Il lato oscuro dell'abbigliamento a basso costo. Il fenomeno del "pollution shifting"

Il lato oscuro dell'abbigliamento a basso costo. Il fenomeno del "pollution shifting"

Fino a 20 anni fa, nessuno aveva sentito parlare di fast fashion. Lo shopping era un evento occasionale, un’attività che accadeva poco e per necessità. Poi i vestiti si sono fatti più economici. Sono comparse le prime catene di abbigliamento lowcost e lo shopping è diventato un hobby. É il New York Times ad usare per la prima volta il termine fast fashion, in un articolo dedicato all’apertura di uno store di Zara a New York il 31 dicembre 1989. L’articolo riporta la grande novità: ogni settimana c’è una nuova spedizione dalla Spagna e ci vogliono solo due settimane tra una nuova idea e l’arrivo della collezione. E’ una rivoluzione, scatta una corsa  all’acquisto compulsivo e la moda si fa “usa e getta”.

Il carattere economico della moda fast, però, è solo un’illusione ottica. Molto salati, infatti, sono i costi occulti che questo modello produttivo provoca, soprattutto ambientali e sociali. Si cerca di convincere la gente a comprare prodotti di cui non ci sarebbe necessità e si usa l’ambiente come un'enorme discarica. La produzione e la manifattura dell’industria “Fast Fashion” sono presto spostate in aree in cui la manodopera ha un basso costo e le normative vigenti in materia di condizioni di lavoro e tutela ambientale sono meno stringenti. Tanti, troppi capi di abbigliamento vengono fatti con lo sfruttamento, anche minorile. Sapete che le piccole mani di un bambino sono ideali per il delicato lavoro di cucito? Vi ricordate il Rana Plaza in Bangladesh?  Donne e bambini che lavoravano per portare abiti nei nostri negozi a poco prezzo che è crollato per mancanza di manutenzione e per il troppo peso. Essere pagati due o tre dollari al giorno per rischiare la vita non è accettabile nel mondo sviluppato, eppure è questo stesso mondo ad incrementare questo tipo di sistema, purché non avvenga davanti ai propri occhi.

Qualcuno si è mai chiesto, inoltre, che fine fanno tutti questi vestiti? E’ presto detto. Riempiono gli armadi e le discariche! Il deserto del Cile appare in alcune fotografie come una vera e propria discarica per l’abbigliamento: ogni anno, si stima che raggiungano il deserto di Atacama 39mila tonnellate di vestiti. Si tratta degli scarti invenduti dell’industria della fast fashion, prodotti in Bangladesh e in Cina. Una catastrofe ambientale incredibileE ancora, non è raro imbattersi in immagini che raffigurano montagne di vestiti usati lasciati a decomporsi in ambienti altrimenti incontaminati. Il Ghana negli ultimi decenni si è trasformato in una vera e propria discarica a cielo aperto del mondo occidentale. Vestiti che si accumulano creando problemi all’ambiente e alla salute delle persone. 

Vale la pena provocare tutto ciò se 3 abiti su 5 passano dal guardaroba alla spazzatura dopo solo un anno, rischiando nel frattempo anche di non venire indossati? (Capita nel 55% dei capi femminili). Un atteggiamento di sfacciato consumismo reso possibile proprio dai prezzi stracciati.

Dunque, noi consumatori, cosa possiamo fare nel nostro piccolo? Se deve avvenire un vero cambiamento, sempre più persone devono iniziare ad adottare un approccio proattivo e agire in base ai propri valori morali. Piccoli cambiamenti nello stile di vita possono cambiare il mondo. In primis, chiedersi sempre quanto un acquisto sia realmente essenziale. In secondo luogo, è una buona abitudine quella di controllare il paese di origine e le modalità di produzione e per quanto possibile, fare scelte eco–friendly. Prima di acquistare qualunque tipo di prodotto, dovremmo chiederci:

” Mi serve davvero?”

” Dove è stato fatto?”

” Durerà nel tempo?”

” Con quale materiale è stato realizzato?”

E’ ora di frenare la fast fashion e mettere il pianeta al primo posto.

 

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